Qualche giorno fa sul sito de Le Iene, la famosa trasmissione di intrattenimento targata Mediaset, è stata pubblicata la lettera di una mamma che chiede consigli per il figlio, Daniel (nome di fantasia), dipendente dai videogame.

Premetto che l’intera lettera sembra un po’ artefatta anzi, verrebbe quasi da dire che puzza leggermente di fake. Immaginando tuttavia che Le Iene abbiano verificato e che il racconto sia vero, la commovente lettera (così viene definita nelle poche righe introduttive) spinge a qualche considerazione. Consideriamola dunque solo il racconto di una mamma un po’ narcisista, e partiamo dall’inizio.

La missiva pubblicata interamente racconta la disperazione di una madre di fronte al figlio che, all’età di 33 anni, disoccupato, passa la vita chiuso in camera a giocare con il suo videogioco preferito: Word of Warcraft, ma forse anche altri (in corsivo le frasi originali, ndr). Un problemino che il giovane si porta avanti, sempre stando alle parole della madre, almeno dall’età di 16 anni.

Sono molte le perplessità, i motivi per cui la lettera sembra quantomeno strana. Partiamo da “nel periodo natalizio, gioca al centro commerciale, nel reparto giochi, con il Nintendo”. La madre parla di un periodo che va da fine anni Ottanta ai primi anni Novanta. Il riferimento è preciso, ma strano che una madre, che non sembra un’appassionata videogiocatrice, ricordi esattamente la console con cui il figlio giocava nei centri commerciali. Comunque ok, può essere che la signora abbia memoria buona, quindi andiamo avanti.

Tralasciamo il discorso sulla fallimentare esperienza calcistica, con il bimbo che passa 8 anni in panchina prima che la madre si accorga che “era umiliante alzarsi presto la mattina per restare in panchina”. Colpisce l’ammissione della donna, che scrive di aver voluto il secondo figlio a causa dei problemi con il marito e per cancellare il ricordo degli errori commessi nel crescere il primo figlio (guarda caso, cresciuto senza insicurezze!): “Volevo riscattarmi e con Daniel pensavo di esserci riuscita.”

Una voglia di riscatto che tuttavia ha breve durata perché “io sono troppo impegnata, il lavoro e il volontariato mi portano via tutta la giornata”. E va bene, il lavoro serve, ma almeno il volontariato non si poteva mettere da parte per il bene del figlio? Evidentemente no, perché per la signora “il problema” pare sempre essere “negli altri”.

Ecco che arriva anche il divorzio, un nuovo compagno e l’immancabile colpevolizzazione dell’ex marito, così “forse anche per colpa del mio ex, Daniel comincia a isolarsi”. Il giovane arriva a 22 anni, lei decide di allontanarsi volontariamente (da un figlio che, seppur maggiorenne, dimostra un chiaro disagio) e “Daniel intanto ha perso 15 chili in 2 mesi!  Suo padre avrebbe dovuto occuparsi di lui, ma… ”. Eh già, colpa solo del padre se “Daniel non sa cucinare, non chiede soldi a nessuno e quindi salta i pasti. Mi sono sentita una merda…”.

La lettera è ancora lunga, ma la parte citata è sufficiente per trarre qualche conclusione. Ci spiace per Daniel (qualunque sia il suo vero nome, se esiste) e per tutti i Daniel che hanno vissuto e vivono storie simili. Ecco, l’unico modo per venirne fuori, lo dicono tutti gli esperti, è costruendo attorno a chi vive questo problema (e qualsiasi altra dipendenza) una rete sociale solida, cosa che la madre scrivente, ad esempio, avrebbe potuto fare coinvolgendo il figlio più grande. Una rete sociale fatta di persone realmente interessate al ragazzo, non fatta da ipocriti zombie concentrati, in realtà, solo nel proprio narcisismo.

Certo, nel caso specifico sarebbe stato anche utile evitare di farcire la storia con le beghe famigliari, che capitano, e quando capitano possono peggiorare le situazioni, ma di certo non le migliorano se una delle due parti si erge a rappresentante della Verità e colpevolizza apertamente l’altro. Da ultimo: perché attendere 17 anni? Se conoscete qualche persona con difficoltà di questo tipo non aspettate che si distrugga, che dimagrisca di 15 chili deperendo fisicamente e mentalmente. Piuttosto invitatela ad uscire, a partecipare a un torneo eSports (magari scoprite un campione!). Quantomeno segnalate il caso a chi può dare concretamente una mano (un assistente sociale, il SerT di zona, il servizio di Primo soccorso, in base alla gravità del caso).

Un’ultima cosa importante: una volta per tutte, basta colpevolizzare i videogiochi. Spiace che, ancora una volta, a cadere nel tranello sia una trasmissione come Le Iene, che talvolta è riuscita anche a costruire qualche servizio serio. È bene ricordare che chi sviluppa una dipendenza solitamente ha altri problemi da risolvere. La dipendenza è solo la manifestazione di un disagio che è dentro, e il videogioco è solo una finta realtà, un “luogo” ovattato dove chi soffre si rifugia sapendo che “lì dentro non fa male”. Ma non è il videogioco il problema, se si vuole essere di aiuto questo è giusto ricordarlo, sempre.