Dire che per i pro player “fare squadra” è un’esigenza può sembrare una frase banale. I giocatori sono abituati (chi più, chi meno) a giocare gli uni a fianco degli altri, a scrutarsi e intendersi per aggiungere alle loro abilità quel quid che consente di sovrastare l’avversario. Ma se l’idea di gioco di squadra è scontato nel corso di una competizione come si può trasporre lo stesso concetto di fronte a un “avversario” che di virtuale non ha nulla, e che spesso ha dimensioni poco predisponenti ad un dialogo alla pari?

Partiamo con un quesito: nel mondo degli esport c’è modo di unirsi per affrontare abusi, contratti non rispettati, clausole oppressive o qualsiasi altra inadempienza da parte di team o organizzazioni? Uno degli ultimi casi saliti agli onori delle cronache è avvenuto in Turchia, con protagonista nientemeno che il Beşiktaş Esports, divisione digitalizzata di uno dei team più titolati della Turchia. Stando alla “denuncia” presentata tramite un Twitlonger da una ex pro player di League of Legends, il team turco non ha rispettato gli accordi con giocatori e staff, che da mesi attendono di essere pagati. Le accuse di Natalie “Stratospanda” Kristiansen, questo il nome della player, sono state confermate anche da un’altra giocatrice dello stesso team, Olimpia “Komedyja” Cichosz, e avallate anche da notizie di stampa che vedono l’intera polisportiva Beşiktaş, sull’orlo del collasso finanziario (con debiti per almeno 450 milioni di dollari).

Nelle scorse settimane avevamo parlato di vari altri casi riguardanti player e società, alcuni di questi giunti anche alle vie legali. Casi in cui non sempre il player ha ragione, ma che magari avrebbero potuto finire diversamente, con soddisfazione di entrambe le parti, se si fossero prese in considerazione fin dall’inizio tutte le sfaccettature che un rapporto tra organizzazione e player comportano. L’esperienza ha messo in evidenza che non bastano i regolamenti e le “leghe” attuali, organismi che non hanno la forza per accordarsi con le società su salari e contratti, sulle condizioni di lavoro, l’assicurazione sanitaria, i rimborsi delle spese di trasferta, o l’acquisto dell’attrezzatura necessaria.

Emerge sempre più l’esigenza di soggetti terzi, che conoscano le leggi attualmente esistenti (e la loro applicazione) paese per paese, e che consiglino e tutelino le parti deboli; che nella gran parte dei casi sono i player e i professionisti che “girano” loro attorno. Ecco dunque l’idea del “fare squadra”. Un’idea di un sindacato riadattato al mondo del gaming competitivo che, a dire il vero, già da qualche anno è emersa nei mercati più evoluti. Come quello degli Stati Uniti, ad esempio, dove si è formata un’associazione di giocatori di League of Legends, la LoL Player’s Association, che ha trovato pure il supporto di Riot Games (cosa che fa un po’ storcere il naso). A livello europeo qualcosa si è mosso qualche mese fa attorno al titolo Counter Strike: Global Offensive, che ha visto nascere la Counter-Strike Professional Players Association

Un altro esempio concreto da prendere in considerazione potrebbe essere quello di cui le cronache hanno parlato qualche giorno fa, ossia il cosiddetto sindacato degli youtuber. Youtubers Union, nato nel 2018, ha avviato un accordo con Ig Metall, un sindacato metalmeccanico tedesco che è anche tra i principali a livello europeo. Dall’unione è nato FairTube, che riunisce oggi oltre 23mila tra videomaker e lavoratori digitali, convinti di meritare regole un trattamento più democratico da parte della famosa piattaforma video.

Su tutti questi aspetti in Italia, ovviamente, siamo ancora quasi alla preistoria. Occorre ragionare se sia meglio un sindacato unico, un soggetto grande, riconosciuto e contrattualmente “pesante”, o dei soggetti più piccoli (uno per ogni titolo competitivo), sarà probabilmente il mercato a dircelo. Al momento, come anticipato, anche per altre questioni legate agli esport, urge muoversi, far qualcosa, fare squadra. Questo per non trovarsi impreparati qualora la scena politica si dovesse improvvisamente svegliare e cominciasse a porsi il problema di una regolamentazione seria del settore. In tal caso sarebbe importante esserci fin dall’inizio per intavolare al meglio qualsiasi trattativa e arrivare ad individuare chi lavora negli esport come dei lavoratori di uno specifico settore, con uno specifico contratto.

Esistono già delle sigle sindacali che tutelano i lavoratori dello spettacolo, più vicina agli esport c’è l’associazione di categoria dei caster ideata da Simone “Akira” Trimarchi e Ivan “Rampage In The Box” Grieco (anche se il concetto di base è un po’ diverso), potrebbero essere un punto di partenza? Forse sì. Inutile però pensare a un sindacato nel senso tradizionale del termine: occorre un soggetto che abbia le capacità e le potenzialità per guardare anche oltre confine (e non solo in senso letterale), che si confronti con altri contesti analoghi a livello quantomeno europeo, anche per un peso specifico sufficiente a instaurare una relazione paritaria, e non sia solo un terzo incomodo che regge il moccolo mentre organizzazioni e professionisti continuano come prima.