Il Carlosgate si è concluso con l’addio del Ceo dei G2 Esports dopo una settimana dagli eventi che lo hanno coinvolto mediaticamente.

Carlos “Ocelote” Rodriguez, proprietario e fondatore, non è più il Ceo dei G2 Esports: questa è di fatto la notizia arrivata in tarda serata, quasi nottata, e diffusasi quasi immediatamente nel settore. Ex-giocatore, figura spesso fuori dagli schemi, risposte sopra le righe sui social, un intuito non comune nell’approcciarsi ai social e nel trasformare quella che era una sua semplice idea in una delle più importanti, vincenti, seguite, blasonate organizzazioni esports al mondo. Un impero da milioni di dollari costruito con la fiducia degli investitori e di coloro che hanno creduto nel progetto, di chi ha lavorato per l’org, dei giocatori che hanno vinto per i G2, dei tifosi e degli appassionati: un regno che si ritrova adesso senza un re dopo il video in cui Carlos annuncia le sue dimissioni da Ceo e l’apparente addio definitivo all’organizzazione. Perché Rodriguez ha preso questa decisione?

Negli episodi precedenti

Nel precedente editoriale vi avevamo raccontato della precedente decisione dei G2 Esports di sospendere temporaneamente Carlos Rodriguez dal ruolo di Ceo per otto settimane, stipendio incluso: tempo che avrebbe permesso a tutti di comprendere meglio come agire nell’immediato futuro. Una situazione scaturita in primis da un video pubblicato dallo stesso Carlos sui social, riferito ai festeggiamenti per la qualificazione del team di League of Legends ai mondiali 2022, in cui erano presenti figure ritenute “scomode”, per usare un eufemismo: tra cui il controverso Andrew Tate (qui vi raccontiamo anche chi è) e uno dei rappresentanti di Neom, la discussa area metropolitana che dovrebbe sorgere nei prossimi anni in Arabia Saudita, sostenuta dallo stesso Fondo Sovrano Saudita e che include la futuristica città The Line. All’indignazione generale della community per la presenza di queste figure, Carlos aveva risposto affermando che “Nessuno può permettersi di dirmi con chi festeggiare o con quali persone intrattenere rapporti”. Un messaggio che ha scatenato un’ulteriore valanga di polemiche: può il Ceo di un’organizzazione rivolgersi in modo così autoritario ai social e ai suoi follower (molti tifosi della stessa org)?

Addio a Valorant

Nonostante le successive scuse di Carlos, i G2 avevano deciso come anticipato di sospenderlo dalla carica di Ceo, lanciando anche un segnale verso la propria community e i propri tifosi: nessuno è al di sopra delle parti nei G2, nemmeno il ceo. Ciò che probabilmente l’org non si aspettava era però l’esclusione dal partner program di Valorant che Riot Games lancerà nel 2023. Si tratta di una sorta di franchising, quindi una lega chiusa come l’Nba, in cui però per almeno i primi tre anni le squadre non dovranno pagare una quota di ingresso come avviene invece per l’Lec di League of Legends e che si aggirava, nel 2019, intorno ai 10 milioni di euro, poco meno. Essendo Valorant un gioco relativamente “nuovo”, Riot Games ha quindi deciso di utilizzare un approccio più morbido, almeno per i primi anni, in modo da non caricare economicamente troppo le varie organizzazione. Nel 2023 Valorant avrà tre leghe: Americas, Emea (Europa più Nord Africa, Medio Oriente, Cis e Turchia), e Apac, ovvero l’Asia pacifica che va dall’India fino alla Nuova Zelanda passando per Cina, Corea, Vietnam e Thailandia. Le organizzazioni interessate a partecipare hanno presentato la propria candidatura a Riot Games che le avrebbe giudicate per affidabilità economica, stabilità finanziaria, bontà competitiva del progetto e l’incarnazione dei valori basilari dello sport e dell’esports in generale. 

Dentro, anzi no

Secondo le numerose indiscrezioni, i G2 Esports avrebbero fatto richiesta di partecipare alla lega Americas nel tentativo di espandere la propria potenza mediatica, che conta 1,5 milioni di follower su Twitter e 1,4 milioni su Instagram, anche in Nord America, ritenuto da Carlos e dagli investitori un mercato più promettente per il tactical shooter di Riot Games. I G2 sarebbero anche stati in contatto sia con il roster dei Luminosity Gaming che con quello degli Xset, organizzazione protagonista della stagione 2022 in Nord America, fin da prima dell’estate per tentare di giocare d’anticipo e prepararsi per tempo al 2023, convinti di riuscire a far parte della lega. A confermare tale ipotesi, è arrivata anche l’indiscrezione firmata Mikhail Klimentov che ha riportato sul Washington Post come alcuni esponenti di Riot Games che si occupano del reparto esports di Valorant avrebbero in via del tutto informale e ufficiosa dato il via libera ai G2 Esports, comunicandogli poche settimane fa che la loro candidatura era stata accettata, in modo da potersi organizzare in tempo per realizzare la nuova struttura in Nord America, dedicata a Valorant, da affiancare alla sede attualmente esistente a Berlino. 

Il dietrofront

Nonostante le varie rassicurazioni, Riot Games avrebbe poi deciso di fare un passo indietro successivo al Carlosgate che ha coinvolto il Ceo dei G2 Esports. Lapidario ed esemplare quanto comunicato nel momento in cui sono state ufficialmente annunciate le squadre partecipanti (senza i G2): “Per il nostro Valorant Champions Tour 2023 cerchiamo tre caratteristiche nei nostri partner: organizzazioni che condividono i nostri valori, ovvero chi mette sempre i tifosi davanti a tutto, chi sostiene e celebra la diversità della community e chi investe nel sostenere i giocatori professionisti.” Il primo punto è sicuramente sfuggito ai G2 Esports, mentre il secondo ha subito un vacillamento non indifferente. Anche se non sono stati direttamente i G2 Esports a dichiararlo, come affermato nello scorso articolo il problema risiede nel fatto che le figure di Carlos e dei G2 a livello comunicativo, per loro specifica scelta, sono intercambiabili e sovrapponibili, il che porta le azioni del Ceo ad avere conseguenza anche sullo stato dell’organizzazione.

Colpa della cancel culture?

Un ultimo punto riguarda invece la critica di molti verso la cosiddetta ”cancel culture”, ovvero la politica di “cancellare” dalla vita pubblica e mediatica chiunque non rispetti i canoni e i valori della cultura dominante in un determinato momento storico. Posto che si tratta più di un fenomeno costruito dai suoi detrattori e da chi vuole sostenere in realtà le (apparenti) vittime, la verità in questo caso è che la cancel culture non c’entra nulla: Carlos paga oggettivamente non tanto il video pubblicato con le presenze “scomode”, quanto le sue risposte ritenute arroganti che hanno incrinato il rapporto di fiducia con i lavoratori dei G2 Esports, con i fan, con gli stessi investitori e con i publisher dei vari game. Sarebbe probabilmente stato sufficiente un comunicato di scuse, una spiegazione del perché quelle persone si trovassero lì e la grande eco mediatica del video si sarebbe sgonfiata. L’allontanamento di Carlos e la definitiva dissociazione tra la sua figura e quella dell’org sono la conseguenza inevitabile necessaria per difendere il brand G2, il tentativo di riconsolidare i rapporti con il settore e ricomporre quella fiducia necessaria per continuare a credere in loro come organizzazione esports. Senza contare il danno economico per la perdita del potenziale slot nella lega di Valorant. I G2, contrariamente a quanto ad esempio accaduto con i TSM, hanno riconosciuto di non essere inferiori al proprio ceo e di essere in dovere di prendere provvedimenti, esattamente allo stesso modo di come avrebbero fatto verso un dipendente qualsiasi che avesse causato tale, o inferiore, danno economico e d’immagine.