Ghostwire Tokyo, la recensione

Ghostwire Tokyo ha una delle ambientazioni meglio realizzate e popolate degli ultimi anni, peccato che ci ambienti una storia un po’ troppo familiare. Camminare per le strade della Shibuya ricreata perfettamente da Tango Gameworks è stata un’esperienza incredibile. I palazzi, le macchinette, le cabine telefoniche, le auto, i minimarket, i santuari e le piccole casette sono state digitalizzate con un’accuratezza disarmante. Se siete fan delle atmosfere al neon della capitale giapponese posso dirvi con certezza che l’ultima esclusiva per PS5 prodotta da Bethesda vale l’acquisto anche solo per concedervi qualche passeggiata notturna solitaria. Potrebbero esserci degli spiriti malvagi che cercano di uccidervi di tanto in tanto ma non temete sarete ben equipaggiati per sconfiggerli.

Ghostwire Tokyo, la recensione

Ghostwire Tokyo è un FPS

A tutti coloro a cui fosse rimasto qualche dubbio è importante ripeterlo: Ghostwire Tokyo, anche se tratta di soprannaturale e il principale strumento offensivo sono le nostre mani, è uno sparatutto open world in prima persona con elementi di stealth. Le varie abilità della Tessitura Eterea (l’insieme di gesti e segni che il protagonista fa con le mani) non sono altro che il tipico arsenale base degli fps. C’è l’equivalente della classica pistola, del fucile a pompa e del lanciagranate con tanto di “granate stordenti” e un arco che dovrebbe essere uno strano fucile da cecchino. Ci sono gli attacchi caricati per infliggere più danno e un sistema di parata/scudo per fermare gli attacchi degli avversari visto che non c’è una schivata. Il sistema di stealth, poi, è dei più classici: accovacciatevi e potrete fare una finisher one-shot arrivando alle spalle della maggior parte dei nemici. Bellissimo da vedere nelle prime ore di gioco, questo sistema di combattimento smette di evolversi a metà dell’avventura per poi riprendere molte ore più tardi: il risultato è un combattimento che da rivoluzionario passa a molto ripetitivo nel giro di una decina di ore. L’arco, poi, è stata la delusione maggiore: tira delle frecce caricate che uccidono in un colpo i nemici più deboli ma sono efficaci entro, e non oltre, i 15 metri.

Ghostwire Tokyo, la recensione

Ghostbuster alla giapponese

Sicuramente avrete già sentito qualcuno riferirsi in questo modo a Ghostwire Tokyo. Io personalmente lo trovo offensivo visto lo studio che il game director Shinji Mikami (autore di Resident Evil e The Evil Within) ha messo nei nemici e nelle storie che racconta. Ghostbuster è chiassoso e irriverente e soprattutto ha a che fare con dei generici fantasmi. In Ghoswire Tokyo affronterete degli yōkai, spiriti malvagi (yō, significa “maleficio”, e kai, “manifestazione inquietante”) nati dalle degenerazioni peggiori della società, in particolare di quella giapponese. Alcuni incarnano la peer pressure dei teenager che li spinge a svuotarsi della loro identità per uniformarsi alla massa. Alcuni sono la manifestazione fisica della frustrazione sul posto di lavoro, dello stress o del lento consumersi di sé stessi se si passano troppe ore alla scrivania. Ci sono spiriti che impugnano il loro dolore come fosse una mannaia e fantasmi deformati dalla solitudine che attaccano chiunque si avvicini a loro. Ognuno di questi nemici ha un’iconografia riconoscibile che nelle voci del diario viene approfondita per dare al giocatore un quadro molto dettagliato di cosa sta combattendo e perché. Nella campagna principale viene raccontato il minimo indispensabile ma nelle decine di side quest (tutte uniche e ben fatte) potrete scoprire le molte sfaccettature del rapporto che la società giapponese ha con gli spiriti. Alcune approfondiscono nel dettaglio legami familiari spezzati, altre il concetto di fortuna e quello di merito. É proprio in queste missioni secondarie che ho trovato la vera anima di Ghostwire Tokyo: una lettera d’amore alla spiritualità giapponese che invita noi occidentali a scoprire il fascino del misticismo nipponico.

Ghostwire Tokyo, la recensione

Ghostwire Tokyo è una galleria d’arte contemporanea

La cosa che in assoluto mi è piaciuta di più, però, è la gestione del comparto grafico, dalla narrativa visuale al character design. Ghostwire Tokyo vale l’acquisto (quando sarà scontato e dopo un paio di patch per aggiustare qualche fastidioso bug) solo per godere dell’incredibile direzione artistica che ha. Oltre alla perfetta ricostruzione del quartiere di Shibuya, molte missioni vi porteranno a confrontarvi con elementi paranormali e ad avere esperienza di un diverso piano di esperienza. In questi momenti sembra di camminare attraverso un’installazione di video-arte. L’ambiente muta, racconta, si esprime e ti mette in contatto con le emozioni più profonde dei protagonisti e dei personaggi secondari. Da questo punto di vista devo fare veramente i miei complimenti a Tango Gameworks perché sono riusciti suscitare in me (e spero susciteranno in voi) le stesse sensazioni di immersione e connessione che provo quando vado a vedere una mostra di un artista che sento vicino a me. Non vi spoilererò nulla ma sappiate che la contemporaneità, con le sue disfunzioni emotive e relazionali, è molto ben rappresentata e può suscitare importanti reazioni emotive.

Ghostwire Tokyo, la recensione

Un protagonista blando quanto la storia

Oltre al combat che tende a essere ripetitivo l’altra nota dolente di Ghostwire Tokyo è la storia principale. Il protagonista è il più stereotipico ragazzo giapponese introverso che possiate immaginare. Praticamente il personaggio principale di 2/3 degli anime. Il cattivo (il responsabile della sparizione di tutte le persone da Shibuya e dell’arrivo degli yōkai) ha una motivazione e un modo di fare già visti nei videogiochi nipponici e passano veramente tante ore tra un avanzamento di trama e l’altro. I momenti apicali del gameplay, le boss battle, poi, sono senza dubbio le parti più noiose: stun infiniti, ripetitive e in arene spesso banali e con design ostili. Solo verso la fine il gioco riesce a riprendersi sbloccandosi sia a livello narrativo che di game design, ma la strada per arrivarci è lunga ed è tutta uguale. Solo l’estrema varietà delle molte missioni secondarie tiene in piedi il tutto grazie a piccole storie e piccole interazioni originali e ben fatte.

Ghostwire Tokyo, la recensione

Uno Open World non convenzionale

Come vi dicevo prima, Ghostwire Tokyo è un open world cittadino. Non ci sono veicoli, solo un bellissimo quartiere da esplorare a piedi in un’eterna notte in cui spesso e volentieri piove a dirotto. Quello che mi ha piacevolmente stupito, però, è che le  meccaniche classiche di questo genere (le torri per  scoprire nuove parti della mappa per esempio) non sono una noiosa side quest ma una parte integrante della campagna e della storia. Questa non è certamente una novità del genere ma mi ha fatto piacere andare a liberare i Tori (le porte rosse tipiche giapponesi) sapendo che mi avrebbero aiutato a progredire con la narrazione oltre che a sbloccare un nuovo pezzetto di mappa. La storia è divisa in capitoli, ognuno dei quali, bene o male, si svolge in un area diversa della mappa. Il mondo di gioco non è tutto accessibile da subito ma si sblocca col tempo proprio andando a purificare i Tori. Troverete archi singoli o interi santuari con più Tori da liberare e come ricompensa riceverete nuovi poteri, potenziamenti e altri oggetti utili a potenziare il vostro arsenale.

Ghostwire Tokyo, la recensione

Il verdetto

Se siete fan o vi affascina il folklore giapponese e vi attira l’atmosfera tecno-spirituale che vi ho descritto fino ad ora, allora Ghostwire Tokyo è perfetto per voi perché, come me, userete la storia non troppo originale e i protagonisti non troppo sviluppati per esplorare un mondo ricchissimo di curiosità, spunti di riflessione e analisi della società nipponica. Se, invece, siete alla ricerca di uno shooter vario, pieno di azione e con una storia avvincente, purtroppo Ghostwire Tokyo non è nessuna di queste cose. Certo potete accarezzare e leggere i pensieri di decine di cani e gatti giapponesi, e so che per alcuni solo questo è il selling point più importante. In più i vendor sono degli spiriti di gatti anziani e saggi con due code che pigramente vi daranno il benvenuto e vi affideranno piccole fetch quest. Gli spunti interessanti sul folklore giapponese sono troppi per essere contati e questo è il vero punto di forza del gioco, peccato per la storia principale ma almeno ho trovato il primo gioco che mi motiva davvero a fare tutte le missioni secondarie.