Nella foto Micaela Romanini, fondatrice di Women in Games Italia.

In questa puntata della nostra rubrica incontriamo Micaela Romanini, fondatrice di Women in Games Italia, un’organizzazione no profit che lavora per promuovere l’inclusione di genere negli esports.

L’industria degli esports è dominata dagli uomini. La percentuale di donne che ricoprono un ruolo lavorativo nelle competizioni sportive elettroniche o che gareggiano professionalmente è stimata intorno al 5% o con un rapporto di 1 a 20. Per tale ragione sono nati in tutto il mondo gruppi finalizzati a promuovere la diversità nel settore dei videogiochi. Tra di essi spicca Women in Games, organizzazione no profit il cui obiettivo principale è raddoppiare il numero delle professioniste in dieci anni. Women in Games può tra l’altro contare su una sezione tutta italiana, fondata da Micaela Romanini. L’ho incontrata per un’informale chiacchierata su donne, esports e professionismo femminile.

1) Quali iniziative avete portato avanti finora per sostenere le donne negli esports?

Abbiamo portato avanti diverse iniziative per promuovere l’inclusione di genere nel settore games ed esports. Ci sono le nostre testimonial, le professioniste che fanno parte del nostro network, che lavorano in ambito esports come giocatrici, commentatrici o streamer. In particolare abbiamo fatto un lavoro molto importante nel 2018, al Global Esports Forum, proprio con Women in Games, l’organizzazione internazionale. In quell’occasione abbiamo lavorato a un documento per promuovere l’inclusione di genere nel settore degli esports: una serie di linee guida da dare alle aziende per organizzare tornei ed eventi più inclusivi, incrementare il numero di professioniste e promuovere una rappresentazione più corretta delle donne del settore.

2) I circuiti professionistici per sole donne sono un’opportunità o sono una forma di discriminazione?

Diciamo che il concetto di quote rosa o di iniziativa chiusa in generale non è secondo me, e anche secondo altri del network di Women in Games, la soluzione migliore, perché finisce per ghettizzare ancora di più. Però, in un momento in cui si devono avviare ancora moltissime professioniste e tante iniziative, creare ambienti più protetti può aiutare. Può permettere a professioniste molto giovani di costruirsi una reputazione senza gli episodi di cyberbullismo che purtroppo accadono ancora oggi. Quindi non è l’opzione migliore, ma aiuta moltissimo, soprattutto in una prima fase di avvio alla carriera e di sviluppo del settore in Italia, dove è ancora molto giovane.

3) Cosa si potrebbe fare per incentivare il professionismo nelle donne?

Sicuramente promuovere iniziative con le scuole, borse di studio e tornei che facciano capire che si tratta di una professione anche per donne. Inoltre, cercare di “convincere” o di lavorare con le aziende del settore per fare in modo che inseriscano un numero maggiore di professioniste. Quindi lavorare a livello culturale, con la scuola e la società, ma anche e soprattutto con le aziende, dato che sono quelle a creare le opportunità professionali.

4) Avete mai pensato a una collaborazione con atleti o personaggi di spicco del mondo dello sport che facciano da testimonial e richiamo per le player?

Assolutamente sì. Siamo partner del team Sambenedettese femminile e compariamo con il nostro logo sulle loro magliette. Stiamo cercando di parlare anche con altre squadre e giocatrici per fare questo tipo di lavoro di promozione.

5) Perché le donne non sono percepite come un gruppo target nel settore del gaming?

Perché storicamente, con all’inizio dello sviluppo dell’industria del videogioco, il target, quello creato dalle aziende e dai reparti marketing, rispecchiava la visione del giocatore uomo di più o meno venti, trent’anni. Poi hanno continuato a creare titoli pensati proprio per questa categoria. Si è visto poi, con studi più recenti e anche con l’esplosione del mobile gaming e del casual gaming, che ormai tantissime donne giocano. Ora le aziende stanno sempre più sviluppando titoli rivolti a diversi pubblici, che possono interessare sia un pubblico maschile che femminile. Qualcosa sta cambiando. Poi, ovviamente, ci sono generi nei quali c’è una minoranza più sviluppata di donne giocatrici, come per esempio gli sportivi e i racing games, che sono quelli con la percentuale più bassa, o gli sparatutto. Però sono sempre di più le ragazze interessate a giocare e ciò aiuta. Poi c’è da dire che questo è anche un aspetto culturale: nelle famiglie vediamo spesso che i bambini li fanno giocare ai videogiochi o ricevono in regalo la console, mentre alle bambine si dice “Ah, questo è un gioco da maschiacci”. Non si pensa che anche loro possano giocare ai videogiochi. Quindi è un discorso culturale molto complesso. E sicuramente avere un’industria sviluppata aiuta, perché in questo modo si evidenziano le opportunità professionali: le giovani ragazze interessate ai videogiochi possono capire che si può studiare per lavorare nel settore e di conseguenza essere assunte. Nei Paesi nei quali l’industria del videogioco è più sviluppata e ci sono più opportunità, le percentuali sono un po’ migliori.

6) Come può il pubblico femminile degli esports aiutare a spingere il professionismo al femminile?

È un discorso molto complesso perché sono tutt’e due strettamente legati. Quando vediamo che il pubblico delle giocatrici si allarga è perché spesso si è allargato anche il pubblico delle professioniste che creano giochi o eventi per questo target. Le due cose sono molto legate e sicuramente avere una maggiore rappresentazione aiuta ad avere un pubblico diverso. Lo vediamo per esempio nel calcio femminile. Prima non si conosceva nessuna squadra, nessun team femminile, non veniva data loro alcuna importanza. Da quando le aziende hanno cominciato a sponsorizzare alcuni team e le giocatrici hanno iniziato ad avere più visibilità, anche il pubblico delle ragazze interessate a giocare a calcio è aumentato. Quindi sono tutt’e due strettamente collegati, l’uno aiuta l’altro.

7) Ma, più precisamente, la base dei fan degli esports ha a disposizione strumenti di pressione?

Questo lo vediamo in generale nel settore del videogioco e non degli esports. Ci sono molti studi al riguardo. Uno studio di Newzoo, per esempio, ha chiesto ai giocatori se si sentissero rappresentati all’interno del videogioco. Le risposte sono state molto negative: circa il 60% ha detto di non sentirsi rappresentato. Quindi i giocatori sono sempre più consapevoli dei propri “diritti” di essere inclusi, rappresentati in modo più corretto, di avere opportunità. Sono loro oggi a chiedere alle aziende di rappresentarli e inserirli correttamente. Questo è molto interessante, secondo me, e anche nel settore degli esports è probabile che arriverà tra poco una tale richiesta.