A che punto sono gli esports oggi? dove li ha portati il 2019, che per molti è stato (o avrebbe dovuto essere) l’anno della svolta? Dove li porterà questo 2020? L’industria esports, definita così per esigenze di sintesi, è sicuramente in crescita da diversi anni. Difficile prevedere dove si potrà arrivare, quantomeno fino a che non si comincerà ad osservare i singoli titoli, senza fare il consueto pastone che mette tutti i giochi, tutte le competizioni, tutte le community, sullo stesso piano. Proviamo dunque a trovare qualche spunto partendo da input assolutamente non banali raccolti da interventi vari, dall’Entertainment & Media advisor Filippo Pedrini al presidente di Nintendo, Shuntaro Furukawa al presidente di Blizzard International, J. Allen Brack.

Inutile dire che al momento continuiamo a parlare di un fenomeno di nicchia, come ha dimostrato, qualche giorno fa, una lunga discussione social (su LinkedIn) che ha preso origine dai dati di audience dell’ultima edizione dei Campionati mondiali di League of Legends, a Parigi, messi in confronto con i dati analoghi del SuperBowl. Confrontando la media degli spettatori, come ha sottolineato Filippo Pedrini nel suo commento, l’evento sportivo a stelle e strisce (seguito da 98 milioni di spettatori) ha surclassato il campionato videoludico (seguito in media da 21,8 milioni di persone), confermando che “gli esport non sono più grandi del Superbowl, non ancora almeno – come ha chiosato Pedrini -. Ci arriveremo ne sono sicuro, ma oggi, gonfiare le aspettative fa più male che bene al settore”.

Ottimo spunto di riflessione, come spesso capita con il famoso The Esport Maestro (Pedrini, ndr), che invita a porsi più di qualche domanda. Chi gestisce il business degli esports sta facendo tutto il possibile per uno sviluppo sano della scena competitiva? Per gli analisti ha senso continuare a parlare, anche nel 2020, genericamente di esports, mettendo tutti i titoli nello stesso calderone? Come mai si parla tanto delle cifre dei montepremi, ma non si specifica quasi mai il reale peso economico delle partnership?

Di domande, a veder bene, ce ne sarebbero molte altre. Alcune suscitate anche dal presidente di Nintendo, Shuntaro Furukawa, che recentemente ha spiegato come mai la sua azienda non intende finanziare i montepremi dei tornei esports di Super Smash Bros. Ultimate, dicendo che i titoli Nintendo devono consentire la partecipazione a tutti, indipendentemente dall’esperienza, dal sesso o dall’età. Opinioni, per carità, e in quanto tali rispettabili, anche se vien da chiedersi: ma come, e gli altri esports allora non sono inclusivi? Ma soprattutto, siamo sicuri che in Smash Bros. l’esperienza non conti?

Ma andiamo avanti, perché più interessanti ancora, come elementi di partenza di una riflessione che può accompagnarci durante tutto l’anno, è il pensiero del presidente di Blizzard International, J. Allen Brack. In una intervista rilasciata qualche giorno fa a Dot Esports, Brack solleva delle questioni per nulla superficiali. Per lui infatti, gli esports sarebbero “difficili per il grande pubblico”. 

Brack parla, nello specifico, di Overwatch, un gioco che si mantiene vivo con l’aggiunta di nuovi eroi e nuove abilità, ma nel contempo, proprio con queste costanti aggiunte, rischia di creare un senso di straniamento a chi non segue costantemente lo sviluppo del titolo. Una questione che si è già sollevata in passato, questa, ma che è interessante risentire pronunciata dalla bocca di un publisher. Da un lato ci sono le legittime esigenze di chi vende un prodotto che deve essere sempre interessante per i possibili acquirenti, dall’altro l’esigenza di stabilità per la scena competitiva, per chi deve fissare delle regole e per chi segue le competizioni come meno assiduità.

D’altronde anche uno sport molto popolare come il calcio, soprattutto in anni recenti, ha dovuto fare di necessità virtù, introducendo novità che vanno da palloni più leggeri al Video assistant referee. Il tutto per aumentare l’interesse del pubblico nel gioco e provare a rendere il gioco più spettacolare da un lato (con i nuovi palloni) e più regolamentato dall’altro (VAR). Proprio il calcio potrebbe, in effetti, offrire una soluzione, almeno su questo fronte, anche per i titoli esports. Le novità introdotte, di volta in volta, vengono studiate e analizzate da giornalisti professionisti, alcuni dei quali, durante le telecronache, spiegano a chi segue caratteristiche e influenza nel gioco delle nuove regole.

Ecco, gli esports hanno i caster. Già da ora, da questo inizio 2020, si potrebbe benissimo chiedere ai caster più professionali innanzitutto una rimodulazione di linguaggio per aiutare chi prova questo senso di straniamento di quella fetta di pubblico meno che segue con meno assiduità. Certo, si tratterebbe anche di creare nuove professionalità, e in questo forse proprio i publisher che sostengono la scena competitiva dovrebbero investire maggiormente. Questo per aiutare i caster a uscire da certi cliché, che attualmente tranne rarissimi casi, li vedono alla stregua di certi telecronisti delle reti regionali, incapaci di uscire da una sorta di recitazione di maniera, ripetitiva, sempre uguale a sé stessa.

Un caster è quanto di più vicino c’è a un telecronista, e potrebbe davvero essere quell’elemento in più che non solo tiene unita una categoria di appassionati, ma la aiuta a crescere. Non vedo perché la regola del buon giornalista, che deve sempre porsi il problema di far capire il suo pezzo anche a chi vi si imbattesse senza aver mai sentito parlare di un determinato argomento, non possa essere adattata anche a questa categoria. Da istrionico santone autodidatta capace di parlare solo alla sua nicchia di follower, il caster “rinnovato” potrebbe anche scoprire una professione, diventando quell’elemento collante tra la tradizione (leggi anche “stabilità”, necessaria alla crescita del sistema esports) e l’innovazione (necessaria ai publisher), del quale ora spesso si sente la carenza.