E se Donald Trump, una volta tanto, avesse ragione?

Chiariamo subito, il titolo è solo una provocazione… forse. Sì, forse, perché l’argomento è di quelli seri. Fin troppo. Ogni volta che infatti qualcuno prevarica le leggi e i poteri di uno Stato possiamo chiaramente dire che c’è un problema, ed è il caso di non far finta di nulla.

Partiamo dai fatti. Nei giorni scorsi il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha fatto parlare di sé per essersi espresso duramente in merito ai disordini che hanno fatto seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd. Ecco il Tweet “incriminato” di Trump, censurato (troncato) nella sua seconda parte:

Il tweet di Trump proseguiva con “questi TEPPISTI stanno disonorando il ricordo di Goerge Floyd, e io non permetterò che accada. Ho appena parlato con il governatore Tim Walz e gli ho detto che le forze armate sono totalmente con lui. Se ci sono difficoltà, assumeremo il controllo, ma quando parte il saccheggio, si inizia a sparare. Grazie!“. Frasi pesanti che Twitter ha ritenuto degne di censura perché “questo tweet viola le regole di Twitter sull’esaltazione della violenza”.

Dura la reazione di Trump alla censura. Ha firmato un ordine esecutivo che chiede Federal Communications Commission (FCC), l’agenzia governativa degli Stati Uniti che si occupa di telecomunicazioni, una modifica della Sezione 230 del Communications Decency Act, la legge del 1996 in base alla quale i social network, essendo piattaforme e non testate giornalistiche, non sono responsabili legalmente dei contenuti che gli utenti pubblicano sui social network. Ma parliamoci chiaro: se un social network decide quali sono i contenuti pubblicabili e quali sono quelli non pubblicabili, censurandoli arbitrariamente, non si sta forse comportando come un giornale?

Da qui l’obiettivo di Trump, che sostanzialmente intende ridurre le protezioni di cui godono i social network rispetto ai contenuti pubblicati dagli utenti.

I social network hanno avuto il potere incontrollato di censurare, limitare, modificare, modellare, nascondere, alterare praticamente qualsiasi forma di comunicazione tra cittadini privati o in un più vasto pubblico. Non esiste un precedente nella storia americana di un numero così piccolo di società che controllano una sfera così ampia di interazioni umane“. Ha detto Trump.

Anche chi pensa che Donald Trump sia un folle pericoloso che spara cazzate via social screditando o diffamando i suoi avversari, sarà d’accordo con il sottoscritto che, trattandosi in questi casi di reato, spetterebbe a un magistrato degli Stati Uniti d’America intervenire, piuttosto a che a un dipendente di Jack Dorsey.

Ecco perché il discorso è dannatamente serio. Può una società privata porre limiti alla libertà di opinione e di espressione? Può una soggetto privato sostituirsi alla potere dei giudici? Stavolta è capitato a Trump (e umanamente concordiamo sul fatto che il suo tweet forse avrebbe meritato ben di peggio), ma non sarebbe meglio porre un limite a questa capacità di intervento indiscriminato da parte di chi gestisce le piattaforme social?

Anche perché sono innumerevoli i casi di persone o aziende che hanno avuto problemi (danno di immagine, che diventa anche danno economico) a causa di un post o di qualche immagine innocua che il solerte occhio di chi gestisce i social network ha ritenuto inappropriati. Ci sono casi di utenti comuni, di giornalisti, di blogger (persino un blog artistico-letterario censurato per aver osato pubblicare nudità artistiche) e pure un caso che tocca da vicino il mondo degli esports, quello di una società con un progetto esports molto serio, nato in seno a una squadra di calcio professionistico, del quale riporteremo nel dettaglio a breve.

Le piattaforme sembrano avere tutte una gestione simile: controllano (o ricevono segnalazioni), valutano, a loro insindacabile giudizio agiscono. E quando agiscono non sono tenute a dare spiegazioni: è così e basta. E non vi è modo di venirne a capo.

Ora, dopo la sfuriata di Trump, può cambiare qualcosa in questa faccenda? Difficile a dirsi. La FCC è un organo indipendente dal Governo USA, il quale, come in tal caso, può solo proporre una modifica della legge, non imporla. Certo, visto quanto è cambiata internet negli ultimi anni, la CDA del 1996 e la Sezione 230 in essa inserita (che fu definita “the twenty-six words that created the Internet”), dopo 24 anni potrebbero anche meritarla una revisione. 

A maggior ragione dopo la presa di posizione del patron di Facebook, Mark Zuckerberg, che non ha perso tempo a criticare la piattaforma: “Credo fortemente che Facebook non debba essere l’arbitro della verità di tutto ciò che la gente dice online – ha detto qualche giorno fa in una intervista rilasciata all’emittente americana Fox, riferendosi chiaramente a Twitter -. In generale le società private, specialmente queste piattaforme, probabilmente non dovrebbero essere nella posizione di farlo“.

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